Giorgia Trasselli attrice italiana conosciuta soprattutto per il suo ruolo di “Tata” nella celebre sitcom Casa Vianello, in cui ha affiancato Raimondo Vianello e Sandra Mondaini per molti anni, diventando un volto familiare al pubblico italiano. Oltre alla televisione, ha avuto una lunga carriera nel teatro, collaborando con grandi registi e recitando in numerosi spettacoli di successo. Oltre al teatro, ha partecipato e partecipa a vari film e serie televisive, continuando ad essere una presenza attiva nel panorama artistico italiano, spaziando tra generi e ruoli diversi.

 

Come ha iniziato la sua carriera nel mondo dello spettacolo? Che cosa l’ha ispirata a diventare un’attrice?

«Mi è sempre piaciuto, probabilmente fin da piccola, così mi dicono parenti e amici, anche se i miei genitori non volevano che io facessi l’attrice. Mio padre mi iscrisse a inglese all’università, ma io scalpitavo per andare all’accademia. Invece: “No, no, devi diventare professoressa, interprete, perché hai orecchio per le lingue” diceva. Da inglese, poi, ho cambiato il piano di studi iscrivendomi a lingua e letteratura russa. In quel periodo leggevo un sacco di libri di russo, poi mi ero spaventata un po’, perché a inglese c’erano tantissime persone, tanti studenti. Non lo so, è stata una situazione così. Bussai allora a una porticina dell’Istituto di lingua russa e c’erano seduti ‘quattro gatti’, non metaforici, ma nel vero senso della parola; anzi, forse in quella piccola stanza erano tre i gatti. Io chiesi: ‘Posso entrare?’. Alla professoressa non parve vero: stava facendo degli strani segni alla lavagna, stava scrivendo l’alfabeto cirillico, stava insegnando. Chiesi di potermi sedere, e alla professoressa non parve vero, perché erano veramente quattro gatti, anzi cinque, ecco, non so. E da lì che cosa è successo? Frequentavo, davo gli esami, ecc. Avevo degli esami di lingua e letteratura russa e ceca alla Sapienza con il Prof. Angelo Maria Ripellino, un grande uomo: poeta, scrittore, recensiva anche il teatro, pazzo per il teatro, seguiva tutto, conoscitore di 5-6 lingue, insomma un uomo veramente eccezionale, morto, ahimè, piuttosto giovane. Un professore stupendo e, data la sua passione per il teatro, fece un corso per chi voleva fare uno spettacolo teatrale. Io mi iscrissi subito e lì mi notò un regista. Eravamo tantissimi studenti che stavamo lavorando alla realizzazione del testo La sconosciuta di Aleksandr Blok, e lì mi vide il regista Giancarlo Sammartano, il quale mi disse di avermi notata e mi propose di entrare a far parte della loro nascente compagnia teatrale. Io felicissima, toccare il cielo con un dito è stato tutt’uno, e da lì è partito tutto: lo studio, la danza, il movimento scenico, la dizione, l’interpretazione, insomma tutto quello che serviva per fare questo lavoro.»

Il ruolo della Tata in Casa Vianello l’ha resa un volto noto e molto familiare. Ci racconta com’è avvenuto l’incontro con Sandra Mondaini e Raimondo Vianello?

«Avvenne così: il mio agente all’epoca, questo grande uomo, Guidarino Guidi, una vera personalità nel cinema, nel campo dello spettacolo. Io ero una sua assistita, come si suol dire. Tra l’altro, mi aveva preso in agenzia perché era venuto a vedermi a teatro, al Politecnico, perché una volta funzionava così: gli agenti seri ti venivano a vedere se ritenevano che fossi adatta per entrare nella loro agenzia, altrimenti niente. Oggi invece è cambiato tutto. Allora, lui venne, gli piacqui ed entrai così nella sua agenzia. Poi, un giorno mi comunicò che avevano visto delle mie foto e che avrei dovuto fare la vicina di casa di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello in una sitcom, una situation comedy. Io non sapevo neanche cosa fosse. Ma pensai: Sandra, Raimondo… Raimondo Vianello, oddio, Tarzan, che bello! Raimondo, Tognazzi… perché i miei genitori seguivano moltissimo 1,2,3, che era una trasmissione con Vianello, insomma, meravigliosa. Allora io andai a fare questo incontro che fu molto bello, simpatico, con tutto lo staff. C’erano Raimondo, gli autori, e non ricordo chi altro. Mi chiamarono dopo una settimana, dieci giorni, ora non ricordo e mi diedero da leggere il personaggio della Tata. E così è nato. Ricordo che Raimondo mi chiese: “Ma lei fa teatro?”, che tra l’altro è anche il titolo del libro di una lunga intervista su di me, sul mio lavoro, curata da Massimiliano Beneggi. Alla domanda di Raimondo io pensai: “Oddio, cosa devo rispondere?”. Sai com’è, qui in Italia si fanno un po’ tante cose diverse: cinema, televisione, teatro, doppiaggio… Infine dissi: “Sì, certo”. All’epoca ero in tournée con Sbraggia e Ralli e lui mi disse: “Ah, bene, perché noi cerchiamo attori di teatro”. E io fui felicissima!»

Casa Vianello ancora oggi riscuote un grande successo ogni volta che viene trasmessa. Lei come vive questo successo ancora così attuale di questa sitcom?

«Con grande gioia. Grazie di questa domanda, molto interessante, molto bella per me. Perché veramente ti rendi conto di questo: passano gli anni e io lo sento. A parte i miei allievi a scuola di teatro, che magari sono giovanissimi e non l’hanno vista all’epoca, ma la vedono adesso con le mamme, le nonne, le zie, i genitori. E quando la vedono, mi dicono: “Ah prof., ma lei che forza, che bello, che divertente!”. Io sono non felice, di più: sono strafelice, perché, cosa dirti? È una cosa che resiste nel tempo. Anzi, io stessa, se mi capita di guardare gli episodi, provo, a parte una nostalgia e una tenerezza infinite, anche proprio un divertimento, perché era così attuale, così divertente, come se anticipasse i tempi per certe cose. Veramente, c’erano degli scrittori dietro, delle persone in gamba.»

Nel corso della sua carriera ha interpretato tanti personaggi. C’è qualcuno a cui è maggiormente affezionata? Qual è e perché?

«Ce ne sono diversi. La venditrice di scarpe in Strasse e La lotta per il soldo di Bertolt Brecht, con la regia di Sammartano. Indubbiamente il ruolo di Trieste in Parenti Serpenti, con la regia di Luciano Melchionna. Trieste, la moglie di Lello Arena nella commedia, è un personaggio a cui sono molto legata. Poi Gardenia, sette giornate e un tramonto. Sono legatissima a questa cosa, ogni volta che ci penso mi vengono i brividi, perché non era solo il personaggio, ma è una storia fantastica. Io interpretavo questa bambina che da grande diventa un giudice. La signora Agnese Borsellino, quando vide questo spettacolo fatto al centro di recupero per i giovani a Palermo, siccome alla fine c’era un riferimento a Borsellino, venne a portarmi i fiori in palcoscenico, e credo di aver pianto tutto il tempo. Non riuscivo neanche a uscire dalle quinte per ringraziare. E quello è un personaggio a cui sono molto legata. Poi c’è anche il personaggio che ho interpretato tante volte in Dignità Autonome di Prostituzione, monologo scritto per me da Luciano Melchionna. Ce ne sono veramente tanti. E poi Alda Merini… beh, Alda Merini è il presente, Alda Merini è l’attuale.»

Giorgia, che cosa significa per Lei calcare il palcoscenico rispetto a un set televisivo o cinematografico?

«Il set televisivo e cinematografico, come sempre per me, è il lavoro. Tutto il lavoro che faccio, che mi si presenta, mi mette sempre in uno stato di attenzione, di attesa e di tremore per poter dare il meglio e il massimo. Uno ci tiene a fare bene il proprio lavoro, non solo di fronte al regista e ai colleghi, ma per il pubblico, proprio per dire: “Ho fatto una cosa dignitosa”. Questa, per me, è la spinta, è la cosa principale per cui penso che uno debba pagare un biglietto, accendere la televisione, andare al cinema. Anche per quanto riguarda il teatro, chiaramente è lo stesso: ho sempre lo stesso atteggiamento nel lavoro, qualunque cosa io faccia. Il teatro, però, è quella cosa forte che fa andare il cuore a mille. Ancora oggi, prima che si apra il sipario, oppure prima di quel segnale di luce — non so, quel “un, due, tre” per entrare in scena — ecco, lì metti in gioco tutto, ogni sera, ogni volta. Non è retorica, lo dico con sincerità e anche con gioia, perché in fondo il teatro ci permette di essere uguali e diversi tutte le sere. Uguali perché dobbiamo fare quello, perché è stabilito che sia così, ma nello stesso tempo in teatro c’è il rapporto col pubblico, con persone che non sono un’entità astratta nel buio, ma singoli esseri umani che sono lì e ti guardano. Quindi basta una caramella che si scarta, un colpo di tosse…senti tutto. È un dialogo, in fondo, e quindi è diverso, perché ogni sera anche il pubblico è diverso. O magari sei tu che quella sera sei più stanca o distratta, hai un dolore, ma sei lì e devi rendere comunque. Ecco perché è diverso. Il teatro ci dà questa possibilità, che è sia la nostra gioia che, al contempo, la nostra condanna. Si deve svolgere tutto in quel momento, non c’è la possibilità di fare un altro ciak. Te la giochi lì.»

Nonostante la sua notorietà, fama e successo, un valore che la contraddistingue è l’umiltà. Come si fa a rimanere così umili anche quando si è un’attrice come Giorgia Trasselli?

«Grazie infinite per questo apprezzamento. Mi sembra di non fare nulla per essere così come sono, io sono così. Sono grata, innanzitutto, alla vita che mi ha permesso di fare quello che desideravo, alla mia famiglia, ai miei genitori, al mio ex marito, alle persone che mi circondano. Grata quotidianamente, sempre, perché così non siamo soli, no? E da soli non si arriva da nessuna parte. Detto questo, per tornare alla tua domanda, l’umiltà… è vero, noi facciamo un lavoro meraviglioso che ci mette di fronte alle persone. Viviamo del consenso, dell’applauso, della gratificazione che ci viene dal pubblico, e io penso che sia tutto talmente bello quando accade. Montarsi la testa o perdere il senso di ciò che siamo e ritenersi chissà chi mi sembra talmente stupido e sciocco, che proprio… non lo so.  Infatti, sì, lo vedo anch’io: il nostro lavoro è fatto di ego, i nostri ego sono giganteschi rispetto forse all’ego di chi fa un altro lavoro, che poi non è sempre detto . Noi siamo egocentrici per definizione, perché altrimenti uno non si metterebbe a recitare una poesia o a fare questo o quello. Noi abbiamo voglia di essere visti. Io lo dico sempre: ho voglia di essere vista. Come diceva Eduardo: “Anche noi dobbiamo guardare e, allo stesso tempo, essere visti”. Era un esercizio che uno dei miei maestri ci faceva sempre fare. Detto questo, è vero: facciamo un lavoro di grande narcisismo, di grande egocentrismo, per definizione. Però, come sempre, penso che ci siano tanti modi di svolgere le proprie cose, il proprio lavoro. Ci sono tanti modi di stare al mondo. Certo, anche io amo essere rispettata, come tutti, e rispettare gli altri. Godere del proprio e dare a Cesare quel che è di Cesare, come si suol dire. Per carità, esiste una gerarchia nelle carriere, esistono dei ruoli, esiste un’età, tante cose esistono, ma tutti vanno rispettati allo stesso modo. E basta. Tirarsela, come si suol dire… ma chi sei? Mi viene in mente una frase che mia mamma diceva sempre: “Scendi, che hai predicato“. Dobbiamo stare con i piedi per terra, no? Si chiude il sipario, l’ultimo ciak, torni a casa. È vero che ci portiamo dietro il nostro lavoro, ma solo da un punto di vista di ricerca, per dare sempre il massimo. Ma ecco, “scendi, che hai predicato”, come dire “stiamo con i piedi per terra”.»

Attualmente a quale progetto sta lavorando, se può raccontarcelo?

«Sì, certo, anzi sono molto contenta, perché sto lavorando di nuovo su Alda Merini. Anche quest’anno, sono tre anni che giriamo l’Italia con Indagine su Alda Merini. Questa volta si tratta di Alda Merini: una donna sospesa tra il dolore e la gioia, un altro spettacolo, una situazione completamente diversa dalla precedente, sempre con la regia e il testo di Antonio Sebastian Nobili. L’assistenza è di Virginia Menendez, e in scena con me c’è Valerio Villa, un attore molto bravo e in gamba. Abbiamo già delle piazze da fare.
Poi, c’è un altro progetto per la seconda parte della stagione, che è Una Donna piena di Cielo, dedicato a Margherita Hack. Mamma mia, con molto pudore, con molto terrore… passerò da Alda a Margherita, sempre con lo stesso impegno, perché anche su Alda Merini è stato molto impegnativo, ma questa volta il testo lo è ancora di più da certi punti di vista. In più, Margherita avrà dei musicisti in scena.»

Affiancato al mestiere dell’attrice c’è quello dell’insegnante di recitazione: che rapporto instaura con i suoi allievi?

«In realtà, io non ho mai voluto insegnare a recitare, perché mi sono sempre chiesta, e tutt’oggi lo dico con sincerità: ma come si fa a insegnare? Come si può insegnare a recitare, che ne so, Amleto, Desdemona, eccetera, eccetera? Una volta, anche Giancarlo mi disse di stare tranquilla perché in realtà la recitazione non si insegna, si apprende. E questo mi ha un po’ confortato, nel senso che è vero, come ho appreso io dai miei maestri. A mio avviso, bisogna instaurare innanzitutto un rapporto di empatia: devi vedere un attimo chi hai davanti. Non è come a scuola, al liceo o alle medie; questi sono ragazzi più grandi, fanno delle scelte, partono dalle loro città d’origine, vanno a Roma, a Milano, a Torino, a Genova, inseguono dei sogni. I genitori affrontano delle spese, ma anche loro: chi fa il cameriere, chi lavora in un bar, chi svolge altri lavori per mantenere vivo questo sogno. E quindi, tu che stai dall’altra parte, non dico che devi essere psicologa, perché quella è una professione ancora diversa (io non sono psicologa o psicanalista, e nessuno qui lo è), ma devi comunque guardarli, vederli veramente, cercare di instaurare un rapporto di fiducia. Non puoi raccontare loro balle. Bisogna cercare di creare questo tipo di rapporto. Poi, per carità, non ho la ricetta; considero “ricette” solo quelle del medico o quelle da cucina. Ma come suggerimento, direi di instaurare, almeno quello che tento di fare, un rapporto di fiducia e stima. Come in tutte le cose della vita, ciò che conta è la stima, l’apprezzamento, l’ammirazione per quella persona, per quel ragazzo, per quel maestro, per quel collega. Un’altra cosa, e lo dico con sincerità: quando i ragazzi vengono a vedermi a teatro, ad esempio quando sono venuti a Roma a vedere Alda Merini, ricordo che il teatro era strapieno, stracolmo, ma io ero terrorizzata, veramente terrorizzata dalla presenza dei miei allievi. Tante volte mi dico: “Oddio, adesso i ragazzi vengono a vedere me, sono stata la loro maestra per uno o due anni. Ma io, qua sopra, sarò in grado di fare quello che dico? Quello che comunico?” È questa la domanda. Tante volte poi scherziamo, ridiamo, grazie a Dio, e dico: “Oddio, avevo il terrore, c’eravate voi!” Perché questa è la domanda: noi siamo capaci di fare realmente quello che diciamo? Oppure diciamo quello che siamo? Alla fine, c’è una citazione molto bella: Non si insegna quello che si sa, ma quello che si è >>

Ci saluta con un suo motto?

<< Oddio…un mio motto. Intanto vi saluto con una sorta di emoticon: io metto sempre il sole, perché il sole è la vita, è la gioia, no? Mi dà allegria. E poi, il mio motto è: ‘Viva il teatro, viva questo nostro mestiere, viva la vita! >>