La sigla Ide, come è noto a chi mastica di economia, indica gli investimenti diretti esteri. Si tratta di un fenomeno che in Italia è inferiore ad altri Paesi e che nel Sud è ancora più ridotto. Il trend potrebbe tuttavia cambiare grazie a una serie di fattori incentivanti, dalle risorse del Pnrr al decollo delle Zone economiche speciali. Malgrado un flusso relativamente ridotto degli Ide, le imprese a controllo estero attive in Italia sono comunque in numero rilevante. Il recentissimo Terzo Rapporto dell’Osservatorio Imprese Estere di Luiss Confindustria ci dice che ammontano a ben 15.631, impiegano l’8,8% del totale degli addetti, realizzano il 19% del fatturato, il 16,5% del valore aggiunto, il 26,8% della
spesa in ricerca e sviluppo, il 32,3% dell’export, il 50,3% dell’import di merci. Queste cifre non devono stupire, in quanto si parla di fenomeni diversi. Le imprese a controllo estero comprendono infatti anche
tantissime aziende originariamente di proprietà nazionale, poi cedute a top player o comunque a imprese di media e grande dimensione con centri direzionali in tantissimi altri Paesi del pianeta. Un indicatore importantissimo che ci offre il Rapporto dell’Osservatorio Imprese Estere è quello della qualità superiore alla media espressa da tali aziende. Hanno un trend di investimenti più dinamico, negli anni della pandemia hanno aumentato valore aggiunto e incrementato l’impegno nella ricerca e nello sviluppo, hanno fornito più delle altre imprese una spinta
al miglioramento delle esportazioni italiane nel 2022, anno della
ripresa post covid. A rimarcarne l’eccellenza, almeno per quanto concerne una buona parte di esse, vi sono altri dati: le imprese a controllo estero manifestano una elevata propensione alla formazione del proprio personale, hanno un profilo digitale molto avanzato, presentano i valori più elevati di dimensione aziendale media, fatturato esportato per impresa e fatturato esportato per addetto. Oltretutto, il fenomeno del reshoring non sembra sfiorarle: dall’Italia se ne vanno in pochi. Questo quadro d’insieme rappresenta di per sé un buon motivo per puntare a rendere il territorio meridionale più attrattivo per nuovi insediamenti, non solo endogeni. Il rischio di operazioni ‘mordi e fuggi’, se si ha a che fare con competitor seri, strutturati, è ridotto al minimo. E proprio dall’estero, dunque, può arrivare un forte impulso al potenziamento della base produttiva del Mezzogiorno, e di conseguenza alla riduzione del
divario industriale e occupazionale col resto del Paese.