COPENHAGEN, 27 GIUGNO 2023 – Tutto va come la coppia sperava: la stimolazione ormonale dà ottimi risultati e si recuperano parecchi ovociti, in laboratorio si ottiene la tanto sperata blastocisti euploide, cioè un embrione cromosomicamente normale, che statisticamente ha il 50% delle possibilità di impiantarsi nell’utero materno e dare luogo a una gravidanza a termine, preambolo di un bimbo in braccio. Ma l’obiettivo sfuma: l’embrione non si impianta (o viene abortito) e il test di gravidanza delude tutte le aspettative. Perché accade questo? Professionisti italiani afferenti al gruppo Genera e a Juno Genetics hanno portato a termine una meta-analisi dal titolo ‘Opening the black box: why do euploid blastocysts fail to implant? A systematic review and meta analysis’ con l’obiettivo di passare in rassegna tutti i possibili elementi che portano a un insuccesso dopo trasferimento di embrioni euploidi. Il lavoro, pubblicato poche settimane fa anche sulla rivista Human Reproduction Update, sarà oggetto di una molto attesa comunicazione orale al 39esimo congresso della Società europea di Medicina della riproduzione ed embriologia (ESHRE) in corso a Copenhagen. Gli esperti guidati da Danilo Cimadomo, Laura Rienzi e Antonio Capalbo, rispettivamente responsabile Ricerca e Sviluppo e direttore scientifico del gruppo Genera e Chief Scientific Officer di Juno Genetics, hanno collaborato con colleghi americani della Columbia University di New York e dell’università Federico II di Napoli. Nel tentativo di aprire la ‘scatola nera’ dell’impianto, gli esperti si sono avventurati tra migliaia di lavori presenti nella letteratura scientifica, i quali hanno provato a dare una spiegazione al fallimento di impianto o l’aborto dopo trasferimento di embrioni euploidi. Cercando di fissare quali sono i principali motivi di fallimento, per consentire alla ricerca di proseguire su questa strada e guadagnare sempre più terreno in un ambito che rimane, per sua natura, misterioso e spesso inspiegabile, sono stati necessari due anni di studio, e decine di pagine, tabelle e figure riassuntive sono il risultato del lavoro presentato al congresso Eshre. “Oggi la scienza ci consente di arrivare fino a un certo limite – spiega Rienzi – per cercare il successo nella PMA: lo strumento massimo che abbiamo è poter arrivare a coltivare gli embrioni a blastocisti e poi procedere con il test genetico pre-impianto: un embrione euploide (cioè risultato cromosomicamente sano al test pre-impianto) ha fra il 45 e il 65% di chance di essere un bambino sano che nasce. Viceversa, c’è un 45-55% di embrioni euploidi che non si impianta. Questo range di non impianto è la ‘scatola nera’. Per cercare di aprirla e di descriverne il contenuto abbiamo passato in rassegna tutti i lavori precedenti che avevano investigato i fattori associati al fallimento di impianto di embrioni euploidi. In tutto, abbiamo screenato oltre 1.600 studi e ne abbiamo individuati 416 che rientravano nei parametri di valutazione attendibili per rispondere a questa domanda”. Questi 416 studi sono stati divisi a seconda di quale fattore andassero ad approfondire: embrionale (es. la velocità di sviluppo, la qualità morfologica), materno (es. fattore endometriale, uterino, anamnestico, ormonale, nutrizionale), paterno (es. qualità del seme, età dell’uomo e frammentazione del DNA spermatico), clinico (es. protocolli di stimolazione ormonale, protocolli di preparazione al transfer) e di laboratorio (es. tecniche di coltura, protocolli di manipolazione). Tutto questo materiale è stato analizzato statisticamente e sono emerse alcune associazioni: “Sono state individuate diverse caratteristiche – spiega Cimadomo – che hanno una maggiore influenza sul mancato impianto: a livello dell’embrione, una scarsa qualità del trofoectoderma o della blastocisti in toto, e uno sviluppo più lento; anche in presenza di blastocisti euploide, in donne ‘over 38’ si ha una lieve ma significativa riduzione del tasso di successo; un’esperienza pregressa di fallimento d’impianto; l’obesità(BMI oltre 30). Nulla è emerso a livello di fattore maschile, mentre dal punto di vista clinico: nel contesto della diagnosi pre-impianto, è apparso meglio congelare l’embrione piuttosto che allungare di un giorno la coltura in attesa dell’esito diagnostico per eseguire il transfer a fresco. Ancora, una tecnica di biopsia meno invasiva che non prevede la rimozione dell’embrione dall’incubatore in terza giornata di coltura, è apparsa associata con migliori risultati in termini di gravidanza. Questi – evidenzia l’esperto – sono i fattori che sono risultati significativi al fine di comprendere il perché di un fallimento: da domani, qualora si voglia investigare ulteriori fattori associati con il mancato impianto degli embrioni euploidi, non si potrà prescindere dal controllare prima per questi elementi. Inoltre, questo studio sarà anche molto utile ai fini del counseling alle coppie, che potranno essere consigliate ancora meglio dagli specialisti”.
Anche l’età dell’uomo influisce sui risultati della PMA: il fattore maschile ha un ruolo nel determinare la qualità dell’embrione
Anche l’età dell’uomo e i parametri del liquido seminale hanno un loro ruolo nella riuscita di un ciclo di procreazione medicalmente assistita. Su questo argomento è da tempo in atto un approfondimento scientifico in tutto il mondo e i dati raccolti in Italia dal gruppo Genera, specializzato in Medicina della riproduzione, confermano l’esistenza di una possibile legame fra i cosiddetti ‘outcome’, cioè i risultati di un trattamento per l’infertilità. Ad evidenziarlo è lo studio “WHO 2021-based comprehensive appraisal of sperm factor parameters’ association with embryological and clinical outcomes. A single center study of 4013 PGT-A cycles”, presentato come poster oral al 39esimo congresso della Società europea di Medicina della riproduzione ed embriologia (ESHRE) in corso a Copenhagen. “In questo studio – afferma Rossella Mazzilli, androloga del centro Genera di Roma – ci siamo domandati quale fosse l’impatto dei parametri seminali e dell’età paterna sui risultati embriologici e clinici nei cicli di fecondazione assistita eseguiti tramite ICSI (l’iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo all’interno dell’ovocita, che si oppone alla FIVET in cui i gameti sono lasciati ‘liberi’ di fecondarsi in vitro). In un nostro precedente studio, avevamo già notato un’associazione tra la presenza di un fattore di infertilità maschile severo (inteso come oligoastenoteratozoospermia, azoospermia ostruttiva e azoospermia non ostruttiva) e una riduzione dei tassi di fecondazione/blastulazione (cioè la capacità di un embrione prodotto in vitro di raggiungere lo stadio di blastocisti, necessario per avere le carte in regola nella strada verso la gravidanza). Non era stato evidenziato, però, nessun impatto sui tassi di euploidia allo stadio di blastocisti, cioè sul fatto che l’embrione, dopo aver raggiunto lo stadio di blastocisti, fosse anche cromosomicamente sano. Allo stesso modo, i risultati clinici erano apparsi per lo più indipendenti dalle caratteristiche del liquido seminale, una volta trasferite blastocisti euploidi”. Ad oggi, i dati sull’effetto dell’età paterna sono controversi. Questo perché, prosegue l’esperta, “la maggior parte degli studi fino ad oggi condotti non menzionava i tassi cumulativi di bambini nati vivi per ciclo, e si basava sui criteri dell’WHO 2010, recentemente aggiornati nel 2021. Il nuovo manuale ha infatti introdotto importanti cambiamenti, sia nella metodologia che nella interpretazione dei risultati, eliminando definitivamente il concetto di normalità e i valori minimi di riferimento per il liquido seminale”. Il gruppo di lavoro ha dunque preso in considerazione i nuovi criteri e ha “analizzato retrospettivamente i risultati di 4013 cicli ICSI con PGT-A (test genetico pre-impianto) condotti da 3101 coppie (anni 2013-2021). Le donne avevano una età media di 38,9 ± 3,2, mentre gli uomini un’età di 41,9 ± 5,7 anni.
I RISULTATI
“Abbiamo osservato come una ridotta motilità degli spermatozoi e la presenza di una concentrazione, morfologia e motilità <5° percentile (indicatore presente nei criteri WHO-2021) sono associati a esiti embriologici peggiori e ad un tasso cumulativo di nati vivi per ciclo PGT-A concluso ridotto. Per quanto riguarda l’età paterna, essa sembra influire negativamente sulla blastulazione e sulla qualità embrionaria”. L’orizzonte è però ancora da chiarire: “Sicuramente il nostro studio presenta dei limiti. In primis, il 9% dei cicli non è ancora concluso, e questo potrebbe sottostimare gli outcomes clinici. Tuttavia, crediamo che i risultati di questo studio possano fornire ai professionisti operanti nel mondo della medicina della riproduzione dei dati utili per il counseling alle coppie infertili sulle loro possibilità di successo durante la fecondazione in vitro. Ciò potrebbe essere utile per l’iter decisionale relativo alle strategie cliniche più efficaci da applicare, ma anche per attribuire al fattore maschile la giusta considerazione e il giusto peso”.