Poco meno di 200 miliardi di euro. A tanto ammonta la ricchezza depositata nei paradisi fiscali all’estero dagli italiani. È quanto rileva l’indagine “Global tax evasion report 2024”, curata da Eu Tax Observatory, un think thank della Paris School of Economics. Di fronte a una cifra così impressionante, pari a circa otto volte la manovra economica del Governo Meloni, c’è da chiedersi a cosa serva andare troppo per il sottile e se, al contrario, non valga la pena di ripensare a una sorta di scudo, con meccanismi fiscali incentivanti per chi fa rientrare almeno parte dei suoi averi nella Penisola. Si recupererebbero, almeno, risorse preziose da poter utilizzare a sostegno degli investimenti. Operazione tutt’altro che di poco conto, se si pensa a quanti soldi servirebbero per superare il gap infrastrutturale che alcune aree del Paese, in particolare il Mezzogiorno, scontano nei riguardi del resto d’Italia e d’Europa. Altri soldi potrebbero affluire da una lotta all’evasione più pragmatica. In tal senso, condivido pienamente quanto dichiarato dall’ex procuratore di Milano Francesco Greco, che per anni ha contrastato evasori fiscali italiani e internazionali: andare in riscossione a quasi dieci anni dall’accertamento significa nove volte su dieci trovare società scomparse, nullatenenti. Bisogna quindi concentrare gli sforzi su quelle ancora in vita.