Se è vero che il potere d’acquisto dei salari italiani è fermo a quello del 1991, mentre in tutta Europa è aumentato, non basta protestare: bisogna approfondirne le cause.

Quella determinante è che i livelli di produttività italiani sono cresciuti pochissimo, a fronte di quanto riscontrabile in altri Paesi.

Ragionare con equilibrio significa non trarre affrettate e ingiuste conclusioni. Non è che i lavoratori italiani siano meno laboriosi degli altri. Il problema, se mai è che, sia in termini di politiche di sviluppo che di contrattazione, si sono fatti molti errori.

In Italia la spesa per l’innovazione è largamente inferiore alla media Ue. Inevitabili sono le conseguenze sulla produttività, i cui incrementi sono rallentati da questa anomalia, di cui per la verità non è colpevole solo lo Stato, ma ha le sue brave responsabilità anche un sistema produttivo troppo denso di micro e piccole imprese, inevitabilmente meno dotate delle risorse necessarie per la ricerca ‘in fabbrica’.

A giocare un ruolo negativo sono state anche piattaforme rivendicative sindacali che hanno puntato troppo ad appiattire i livelli retributivi, senza premiare il merito.

Morale della favola: oggi, come sottolinea Giuliano Cazzola, il salario annuo di un addetto delle pulizie o di un cameriere in Italia sono, sia pur di poco, superiori a quelli di omologhi francesi. È nelle fasce di professionalità più elevata che si registrano scompensi a danno dei lavoratori italiani. Ed è anche e soprattutto per questo motivo che molti giovani laureati italiani tendono a cercare lavoro all’estero. Più coraggio nell’investire, dunque, più valorizzazione dei talenti. È da qui che passa il miglioramento degli standard retributivi in Italia, e soprattutto nel Mezzogiorno.