RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO:
Egregio Direttore,
La ragione di questa lettera risiede nell’auspicio che si inizi a rappresentare questo Paese per quello che è effettivamente diventato: giacché le tanto auspicate e decantate riforme, non rappresentano più una necessità, ma un’urgenza imprescindibile per la sopravvivenza di famiglie ed imprese. Un’emergenza economica e sociale.
Tocco soltanto due dei tanti temi di cui si potrebbe trattare, che ritengo tuttavia fondamentali per il futuro di tutti.
Del primo si è parlato ed ancora si parla tanto: fatichiamo a spendere i soldi previsti dal PNRR. La cosa non può purtroppo sorprendere. Storicamente il nostro Paese non è capace di utilizzare le risorse che riceve da Bruxelles. A fine anno rischiamo di perdere una cospicua fetta dei Fondi di Coesione relativi al settennio 2014-2020, perché non siamo riusciti a sostenere negli anni scorsi, in media, investimenti per 9 miliardi di euro l’anno. Come possono sorprendere quindi i ritardi per il Pnrr, peraltro riconducibili in buona parte alle medesime problematiche?
Con il PNRR entro il 2026 dobbiamo spendere mediamente 42 miliardi di euro all’anno per poter realizzare tutti i progetti previsti dal piano. Senza mutare l’attuale stato delle cose, raggiungere questo obbiettivo è oggettivamente impossibile. Ribadisco: non siamo stati in sette anni capaci di spendere 9 miliardi l’anno di Fondi di Coesione non vedo come – non avendo nemmeno sfiorato le cause ostative agli investimenti ed i freni alla spesa – questo possa sorprendere.
Dei Fondi di Coesione – 64,8 miliardi di euro messi a disposizione dell’Italia nel periodo 2014-2020, di cui 17 di cofinanziamento nazionale – poco meno della metà (29,8) sono ancora da spendere. Come Lei ben sa, entro il 31 dicembre: la parte non utilizzata dovrà essere restituita.
Tirando su due somme, tocca investire quasi 72 miliardi entro la fine di quest’anno e 42 miliardi l’anno fino al 2026.
Una discreta opportunità, se non fosse che il nostro Paese ancora si dibatte in storiche problematiche cui appunto non si vuole (o si fatica a) metter mano.
I dati della Banca d’Italia, che si evincono da una delle ultime analisi [1] sono fin troppo eloquenti. Oggi in Italia per realizzare un’opera pubblica occorrono in media 610 giorni, quasi due anni. E i ritardi maggiori si registrano al Sud (685 giorni), quasi totalmente imputabili ad amministrazioni locali (655 giorni contro i 445 del Centro-nord).
La fase di aggiudicazione – a riprova dei ritardi dei governi locali – al Sud dura quasi sei mesi (172 giorni) a fronte degli appena 88 giorni del Centro-Nord. In questa fase procedurale, il divario è evidente sia per i lavori gestiti dal Governo centrale (88 giorni al centro-Nord e 138 al Sud) sia per quelli delle amministrazioni locali (102 al Nord, 198 nel Mezzogiorno).
La durata media per la realizzazione di opere del valore compreso tra 150.000 e un milione di euro, è di 445 giorni al Centro-Nord e di ben 625 al sud (180 giorni in più: sei mesi). Un differenziale ancor più evidente per le opere superiori alla soglia comunitaria €.5.382.000), in cui la durata media di realizzazione – dato eloquente sullo stato dell’arte in Italia – è di 3.085 giorni, più di 8 anni e mezzo.
Le ragioni di questo divario territoriale risiedono nella disorganizzazione e scarsa preparazione delle amministrazioni locali, con uffici sguarniti in uomini e mezzi. Se non si mette mano seriamente alla riduzione di queste tempistiche, ed alle cause chiare ed evidenti che le determinano, con un efficace programma di semplificazione e sburocratizzazione, ed un piano di potenziamento e qualificazione (in uomini e mezzi) delle stazioni appaltanti, rimarremo sempre a tirar le somme dei ritardi, delle opportunità perdute, delle risorse smarrite o revocate.
Urge metter mano a riforme vere e concrete, che puntino anche a cancellare sovrapposizioni di competenze, duplicazioni procedurali, orpelli farraginosi (e onerosi) ed anche (finalmente!) alla coraggiosa soppressione di enti del tutto inutili.
La vera emergenza è questa, o si continuerà, come lo stolto, a fermarsi con gli occhi sulla punta del dito che indica la luna, perdendo quest’ultima totalmente di vista.
Rispettare il cronoprogramma del PNRR, ma anche della nuova programmazione, è fin d’ora materialmente improponibile. Tanto più se si parla di grandi infrastrutture; gli aumenti dei costi delle materie prime e dell’inflazione hanno peggiorato ulteriormente una situazione già di per sé grave.
Occorre avere coraggio ed è questo che, purtroppo, troppo spesso sembra mancare nelle scelte politiche, ad ogni livello istituzionale.
Un ulteriore tema che vorrei sottoporle: la frettolosa soppressione del Superbonus 110% che, a partire soprattutto dal prossimo anno, lungi dal realizzare i tanto declamati risparmi per il bilancio dello Stato, avrà pesantissime ripercussioni sull’economia e sull’occupazione.
L’approvazione da parte del Parlamento europeo della direttiva sulle c.d. case green, ripropone con forza il tema dell’adeguamento energetico degli edifici, in particolare per l’Italia, Paese in cui il patrimonio abitativo è vetusto ed energivoro, più che in tante altre realtà europee.
Il 53,7% delle abitazioni italiane, infatti, ha più di 50 anni (risulta costruito prima del 1970); un ulteriore 31% è stato edificato nel ventennio successivo (1971-1990) ed il 7,4% nel periodo 1991-2000. Meno dell’8% è stato edificato nell’ultimo ventennio.
Alla luce di tale situazione, risulta evidente la necessità di intervenire con lavori di ristrutturazione e di efficientamento energetico in non meno 9,7 milioni di edifici in Italia, per un investimento complessivo (la stima è dell’Ufficio Studi Federcepicostruzioni su dati Istat-Enea) di circa mille miliardi di euro: proprio quanto si stava facendo con il Superbonus: che andava potenziato, esteso e agevolato, non certo cancellato.
La direttiva europea impone agli Stati una serie di misure finalizzate all’obiettivo “emissioni zero” da realizzare entro il 2050, con step intermedi particolarmente impattanti ed onerosi per l’Italia.
Le costruzioni esistenti dovranno essere infatti portate in classe energetica E entro il 2030 (2027 per gli edifici pubblici) e D entro il 2033. Il 61% degli immobili (7.622.524) è oltre le classi energetiche minime di tolleranza indicate dall’Europa (D ed E). Il Governo italiano è stato troppo precipitoso e avventato nel sopprimere questo strumento, che ha attivato investimenti per 78,3 miliardi, consentendo la riqualificazione energetica, con conseguente guadagno di due classi, di 619mila condomini, 117mila edifici unifamiliari e 98mila edifici funzionalmente indipendenti.
Occorre un programma straordinario europeo per incentivare e sostenere la transizione ecologica e perseguire l’ambizioso ma fondamentale obiettivo di avere, dal 2033, solo edifici a consumi zero, energeticamente autosufficienti. Gli edifici sono responsabili di circa il 40% del consumo energetico dell’Unione Europea e del 36% delle emissioni di gas serra legate all’energia, sono quindi tanti gli elementi in gioco che rendono la riqualificazione energetica del patrimonio immobiliare italiano non più rimandabile e che giustificano ampiamente la direttiva UE sulle case green, che oggi l’Italia incomprensibilmente osteggia.
La nostra proposta è quella di prorogare senza indugi il Superbonus 110% (con sconto in fattura e cessione del credito pienamente operativi), usando in parte i Fondi del PNRR e i Fondi Strutturali per finanziare tale misura, e individuare strumenti di sostegno economico con l’UE per il raggiungimento degli obiettivi energetici fissati. Ma occorre guardare anche a strumenti e forme di finanziamento coraggiosi, moderni, innovativi, di grande appetibilità sul mercato dei titoli.
Attualmente si assiste ad una crescente attenzione ai temi legati alla sostenibilità e al risparmio energetico. I green bond appaiono sempre di più tra gli strumenti di finanziamento favoriti dai vari player. L’UE non a caso ha finanziato con green bond circa il 30% del programma Next Generation EU, per un totale di circa 250 milioni di euro, al fine di promuovere progetti in linea con gli accordi presi a livello internazionale (Accordo di Parigi). La crescita del ricorso a strumenti di finanza sostenibile è evidente anche a livello mondiale. Il Canada a marzo 2022 ha emesso il primo green bond sovrano per finanziare la transizione ecologica, offrendo agli investitori il controvalore di 5 miliardi di dollari canadesi (3,6 miliardi di euro).
Anche i BTP Green dell’Italia sono un ottimo esempio: i proventi sono destinati al finanziamento delle spese – sostenute dallo Stato – con un impatto ambientale positivo, al fine di supportare la transizione ecologica del Paese. Si guardi con coraggio a queste forme innovative di raccolta fondi per riqualificare energeticamente il nostro patrimonio immobiliare anche pubblico, remunerando titoli e capitale con investimenti mirati, specifici programmi europei, ma anche i risparmi sulla bolletta energetica.
Ci vuole, però, decisionismo, coraggio, concretezza. E prima ancora, obiettività nelle analisi.
Il Presidente Nazionale
di Federcepicostruzioni
Antonio Lombardi