L’ultimo recente Rapporto Ocse segnala come, nel 2022, i salari in Italia siano aumentati del 5,7%. Ma si tratta di un incremento solo nominale. Con un’inflazione all’8,1%, infatti, il salario lordo si è ridotto del 2,2%. Purtroppo non si tratta di un fenomeno circoscritto al 2022. Proprio l’Ocse ha documentato come i salari reali dei lavoratori italiani, caso unico in Europa, nel trentennio 1990-2020 siano diminuiti. È una situazione insostenibile, che presenta punte di particolare disagio sociale nel Sud. Qui, infatti, è molto più diffusa la presenza di famiglie monoreddito e le gabbie salariali, che pure in molti continuano a invocare come ricetta salva Mezzogiorno, in tantissimi casi sono già una realtà. Le retribuzioni medie sono inferiori a quelle del resto del Paese e, per di più, indebolite da un deficit di servizi pubblici che contribuisce a rendere più costosa la vita dei cittadini del Sud. È evidente, con questo scenario, che il taglio al cuneo fiscale deciso dal Governo Meloni con il decreto lavoro va nella giusta direzione. Si potrebbe affermare che il provvedimento adottato ha una funzione antirecessiva. Salvaguardare il potere d’acquisto di tanti lavoratori contribuisce notevolmente a frenare una flessione del consumo interno che, tra l’altro, già da qualche decennio, quanto meno nei termini di una sostanziale stagnazione, è alla base di una crescita del pil nazionale molto inferiore alla media europea. È dunque fondamentale che si trovino le risorse anche in futuro per rendere strutturale il taglio del cuneo.  L’auspicio è, anzi, che il governo estenda presto i benefici alla fascia di reddito tra i 35 mila e i 50 mila euro annui. Si tratta di lavoratori percettori di importi tali da non consentire di certo di inquadrarli nella categoria dei benestanti e che, nell’ultimo periodo, sono stati, allo stesso modo degli altri, decurtati della propria capacità di spesa per effetto congiunto della crescita delle tariffe energetiche e dell’aumento delle materie prime. Per lo più sono dipendenti di qualificazione medio-alta, che, alla luce dei rincari e di una strategia di contenimento dei danni prevalentemente orientata verso fasce basse di reddito, hanno visto nel giro di pochi mesi svilire il valore reale della busta paga e ridurre il differenziale retributivo nei confronti di profili con minori competenze e professionalità. Intervenire su questo fronte, dunque, avrebbe anche il senso di sostenere quella meritocrazia che, a parole, tutti dicono di supportare, ma nei fatti è spesso subordinata a politiche di appiattimento retributivo.