Dal recente Rapporto Pmi di Confindustria Campania emergono diversi dati interessanti. Tra i tanti spunti offerti, risalta un contrasto di fondo. Le imprese, malgrado i limiti di una struttura produttiva troppo parcellizzata e segnata da una presenza di unità mediamente più piccole rispetto ad altre aree del Paese, continuano a dimostrare una capacità di resilienza e di adattamento rispetto alle sfide complesse poste dal nostro tempo. Basti pensare all’andamento molto positivo delle esportazioni, in crescita sostenuta nei primi nove mesi del 2022. Un incremento pari al 25% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con punte del 35% nella provincia di Caserta. A fronte di questo trend incoraggiante, c’è un contesto che continua a mostrarsi oggettivamente poco idoneo all’attività d’impresa e che ne frena le potenzialità. Ci sono, certo, ostacoli originati da uno scenario internazionale inquietante, con un’inflazione ancora non tornata sotto controllo e con politiche restrittive del credito, adottate dalla Bce, che rischiano di produrre effetti controproducenti. Ma, a questi fattori per così dire esterni alle dinamiche prettamente territoriali, si sommano in Campania, e in larga parte del Sud, altre diseconomie, che aggravano la situazione. Per il 2023 il Rapporto prevede una perdita di circa mezzo punto di pil regionale rispetto al 2022. Su scala nazionale le proiezioni, da quelle più pessimistiche del Centro Studi di Confindustria a quelle dell’Unione europea, oscillino da un + 0,4 a un + 0,8%. Il divario col resto del Paese dunque si allargherebbe considerevolmente. Si andrebbe nella direzione opposta a quella auspicata in questi ultimi anni, in particolare dopo il varo del Piano di ripresa e resilienza. Per quale motivo la finalità di una maggiore coesione territoriale continua a restare nei fatti non perseguita? Le cause sono tante, dai ritardi nell’utilizzo degli strumenti di finanziamento disponibili, agli sprechi della burocrazia. Un esempio clamoroso, in piccolo, è il fallimento del progetto da quasi 100 milioni per il risanamento del centro storico di Napoli. Ne sono stati spesi solo 12 e a fine anno bisognerà restituire il resto all’Unione europea. Una cosa è certa. Le istituzioni, a ogni livello, hanno il dovere di porre fine a scempi del genere, facendo luce sulle responsabilità e sanzionando gli inadempienti. Allo stesso modo, allorché invece ci siano modelli positivi da proporre, bisogna premiare gli efficienti. Se non si attua questa svolta meritocratica, i ritardi della Campania e del Mezzogiorno non saranno mai colmati.