La Coldiretti nel passato, al Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione di Cernobbio, aveva reso noti i dati riguardanti la falsificazione dei prodotti alimentari “made in Italy”. Ne emergeva un quadro devastante per la nostra economia complessiva con un grave vulnus nell’agroalimentare, uno dei settori strategici e più produttivi del Paese, con perdite stimate per 60 miliardi di euro di fatturato all’anno e di circa 300.000 posti di lavoro. Oggi un’inchiesta giornalistica della BBC ha rilevato che 17 prodotti spacciati come a base di pomodori “italiani”, prevalentemente di marche britanniche e tedesche, vengono invece da Xinjiang, in Cina, dove sono coltivati, territorio sottoposto a sanzioni in occidente. Le accuse riguardano colossi di proprietà britannica o tedesca della grande distribuzione e fanno riferimento in particolare ai concentrati trovati sugli scaffali dei supermercati Tesco, Asda o Waitrose. In base ad analisi di laboratorio commissionate dal BBC World Service, all’interno sono state individuate in effetti tracce compatibili con quelle di pomodori coltivati in Cina. L’emittente nota poi come la maggioranza della produzione cinese di pomodori sia concentrata nello Xinjiang: regione al centro di denunce occidentali e di fonte Onu sulla repressione attribuita a Pechino nei confronti degli uiguri musulmani e sullo sfruttamento di detenuti, anche nelle campagne, in forme di «lavoro schiavo». Le catene chiamate in causa dall’inchiesta hanno tuttavia contestato i risultati dei test evocati dalla BBC, dicendosi pronte a fornire controesami. La BBC punta il dito in particolare contro Antonio Petti, azienda italiana di produzione di pomodoro, che sarebbe tra i principali importatori di concentrato di pomodoro dallo Xinjiang, con oltre 36 milioni di chilogrammi tra il 2020 e il 2023. Il gruppo Petti produce a nome proprio ma fornisce anche prodotti a supermercati in tutta Europa che li rivendono con il loro brand. L’inchiesta dell’emittente britannica ha comparato 64 diverse marche di concentrato vendute in UK, in Germania e negli Stati Uniti, mettendole a confronto in laboratorio con campioni dalla Cina e dall’Italia; fra le 64 c’erano marche di aziende italiane e di supermercati, e molte erano prodotte dalla Patti. Le analisi sono state effettuate dalla Source Certain, azienda basata in Australia. I risultati di laboratorio indicano che la maggioranza delle marche testate e tutte quelle vendute in Usa, come anche marche italiane note quali Mutti e Napolina, contengono pomodoro italiano; così anche quelle targate Sainsbury’s e Marks & Spencer. 17 di queste marche però sembravano contenere pomodoro cinese e 10 di queste sono prodotte dalla Petti. Un reporter della BBC si è presentato alla Petti come un uomo d’affari che voleva un ordine di concentrato. Invitato a un tour di una fabbrica in Toscana, ha registrato Pasquale Petti, direttore generale di Italian Food, parte del gruppo Petti, e gli ha chiesto se usassero pomodoro cinese. “Sì” ha risposto Petti, “in Europa nessuno vuole i pomodori cinesi ma se per voi è OK, troveremo un modo di abbassare i costi di produzione anche usando pomodori cinesi”. Interpellato dalla BBC, Pasquale Petti ha dichiarato che non importa più dalla ditta Guannong dello Xinjiang dopo che la compagnia è stata sottoposta a sanzioni dagli Stati Uniti nel 2020 per l’uso di lavoro forzato, e che sta rafforzando il monitoraggio dei fornitori. Tuttavia una ditta che la Patti usa ancora, Bazhou Red Fruit, secondo la BBC avrebbe un numero di telefono in comune con la Guannong. In seguito alla pubblicazione dei risultati, nel Regno Unito i supermercati Tesco e Rewe hanno sospeso le forniture, mentre Waitrose e Morrisons negano di utilizzare pomodori cinesi. Lidl ha ammesso di essersi rifornita per breve tempo di pomodori cinesi in Germania a causa di carenze di approvvigionamento. Sono cifre che dovrebbero far riflettere tutte le istituzioni, specie in un momento come quello che stiamo vivendo nel quale i consumi interni registrano cifre che ci riportano indietro di anni ed il settore in questione è tenuto a galla dall’export che pare non arrestarsi specie in settori strategici come quelli dei vini, dei salumi e dei formaggi. Ma se l’UE ha introdotto regole stringenti per tutelare i prodotti tipici nazionali dei vari stati membri, al contrario, all’estero si continua ad assistere ad un vero e proprio far west dell’agroalimentare, stante la difficoltà per i produttori nostrani di poter vedere tutelati i propri marchi oltre l’area d’influenza dell’Unione. Alla luce della carenza di misure certe per la tutela dei prodotti tipici del “made in Italy”, da parte degli enti, come il WTO, che si occupano del commercio globale, che consentirebbero di evitare situazioni come quella accaduta nel Regno Unito e in Germania, Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, invita comunque i consumatori italiani a segnalare tutti i possibili atti di pirateria agroalimentare per poter consentire tempestivamente ai produttori nazionali da sempre impegnati a garantire standard elevati di qualità conquistati con decenni, per non dire centinaia d’anni d’esperienza, d’intervenire presso le autorità giurisdizionali straniere per limitare i danni ed evitare o almeno ridurre le conseguenze di questo genere odioso di concorrenza sleale.